mercoledì 21 luglio 2010

Parole come pietre

Questa lettera dovrebbe bastare, da sola, a far arrossire d'imbarazzo tutti i corifei dello "sviluppo" a colpi di cazzuola.

Temo però che passerà come acqua sotto un ponte.

La retorica sviluppista fondata sul verbo "fare" ha preso il sopravvento, guai a chi non si professa paladino della "politica del fare". Purtroppo il "fare" che conosciamo è un'entità che deambula su una sola gamba, le manca l'altra, quella del "pensare". Si fa qualcosa, qualsiasi cosa, pur di farla, pur di poter dire "ho fatto". Che quella cosa servisse, fosse utile, necessaria, anche solo opportuna, in fondo, non importava.

Così, per stupidità, il peggiore dei reati che una persona possa commettere, si fanno opere inutili, si sprecano denari pubblici, si anabolizza un'economia destinata a sgonfiarsi rapidamente trascinando nel suo declino soprattutto gli incolpevoli (i colpevoli, nel frattempo, hanno messo al sicuro i guadagni e se la ridono).

Altro che troppi fannulloni (ce n'è senz'altro in Italia, per carità), ben più perniciosi i troppi, troppissimi, fattuttoni (ho coniato un neologismo, vi piace?).

Quanto sarebbe bello se, almeno una volta ogni tanto, invece di invocare il "fare" si perdesse un po' di tempo a farsi domande tipo "perché siamo in questa situazione?", "che cosa ci serve davvero?", sforzandosi di allargare il novero delle risposte e delle soluzioni. No eh? Troppa fatica.

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