Ok, mentre l'ingegnere si dà da fare per produrre i suoi nuovi post, giusto per dimostrare come una commercialista sia ben più efficiente, vi strabilierò riportando integralmente l'intervista rilasciata da
Vezio de Lucia a
Costruire e pubblicata sul numero dello scorso gennaio.
Va bene, lo ammetto, la dritta m'è arrivata da un amico architetto, ma a che servono gli amici?
Una precisazione è d'obbligo: De Lucia è schierato, schieratissimo, e non certo dove mi sono collocata io per venti e più anni, diciamo che lui stava dall'altre parte, oggi in compenso non so più bene dove stare io, ma in fondo, chissenefrega. Comunque, il suo essere schierato non gli ha mai impedito di dire e fare cose d'intelligenza bipartisan come si ama dire oggi.
Io non pretendo che quel che dice in questa intervista convinca tutti, io stessa non posso dire di essere d'accordo su tutto, ma sui concetti di base sì, lo sono, al cento per cento.
E adesso caro ingegnere, la palla passa a te, e vedi di stupirci eh!
STOP AL CONSUMO DI SUOLO
«Un confine netto che decreti lo stop al consumo di suolo. Da lì bisogna ripartire. Parola di Vezio De Lucia, urbanista militante», intervistato su Costruire da Fulvio Bertamini gennaio 2011
Vezio De Lucia, 72 anni, napoletano, è un urbanista militante in servizio permanente effettivo. Già direttore generale dell’Urbanistica presso il ministero dei Lavori pubblici e membro del Consiglio superiore, è stato assessore all’Urbanistica di Antonio Bassolino ai tempi dell’effimera rinascita di Napoli. Poi litigò con ‘o sindaco e non venne confermato. Vanta anche un altro licenziamento lusinghiero: quando lavorava a Porta Pia fu silurato dal ministro Dc Giovanni Prandini, poi travolto da Tangentopoli. Consigliere nazionale di Italia Nostra, ha firmato molti piani e vinto il premio Cederna 2006 per l’urbanistica.
De Lucia, l’urbanistica è davvero in crisi?
«In una crisi irreversibile, direi. Il dato drammatico è che nel frattempo si consuma il territorio, con conseguenze gravissime. Vede, l’urbanistica è molto diversa dalla finanza: il condono fiscale può avere esiti molto pesanti per l’economia e la morale collettiva, ma trascorsi dieci anni è possibile dimenticarlo, praticando una politica opposta, in grado di veicolare principi diversi. Il condono edilizio, invece, lascia un segno irreversibile: le sue ricadute sul territorio non possono più essere rimosse, se non a costi spropositati e impraticabili. Questo rende drammatico il panorama in cui siamo calati. La dilapidazione delle risorse territoriali prosegue. E all’orizzonte non vedo speranze di cambiamento.»
Quali le ragioni della crisi?
«Sono di natura politica. Siamo tutti d’accordo, ormai, nell’affermare che l’urbanistica è componente fondamentale della politica tout court. È a quella scala, dunque, che bisogna fare riferimento per comprendere le cause della crisi, determinate soprattutto dal declino della prevalenza dell’interesse pubblico. Una tendenza cominciata trent’anni fa, negli anni Ottanta, quando è cambiato lo scenario politico, con la prevalenza dell’impostazione thatcheriana e reaganiana. Privato è bello: è la filosofia del ciascuno padrone a casa propria. La città, si pensa, funziona meglio se soddisfa la gran parte degli interessi privati. Ma è vero il contrario. Roma è un esempio clamoroso di questo disastro. Si pensi alla sua mobilità impossibile, alle periferie disumane perché completamente scardinate dal corpo urbano. Tutti gli insegnamenti di decenni di urbanistica sono stati dimenticati per inseguire solo gli interessi della proprietà fondiaria.»
Mi pare una tendenza piuttosto affermata. In fondo, se Roma piange, Milano non certo non ride. Che ne pensa?
«In effetti la mala pianta nasce a Milano, interprete Maurizio Lupi (l’attuale vicepresidente della Camera, ndr). C’è un documento alla base dell’urbanistica contrattata ed è “Ricostruire la grande Milano”, firmato da Luigi Mazza del 2000 ma commissionato da Lupi, allora assessore comunale allo Sviluppo del territorio: qui viene teorizzata la fine della disciplina, che non controlla più nulla ed è formata dalla somma delle decisioni edilizie private. A questo documento fa poi seguito, qualche anno dopo, il testo di riforma nazionale urbanistica, meglio conosciuto come ddl Lupi, che ripercorre quell’impostazione. E che per fortuna non si trasformerà mai in legge. Ma la linea ormai è tracciata. Ricordo che all’epoca anche l’Inu appoggiò la riforma.»
In realtà solo in parte. Anzi, l’allora presidente Paolo Avarello si sentì lasciato solo, in quella posizione.
«Poco importa. Il punto è un altro: la crisi della città – e dell’urbanistica –è sempre stata poco analizzata dalla politica. Anche dalla sinistra, parte cui storicamente faccio riferimento. Lo ha ricordato alcuni anni fa Leonardo Benevolo in uno scritto: nessuno dei principali esponenti della politica nazionale del dopoguerra – da De Gasperi a Togliatti, da Moro a Berlinguer, fino a Fini e D’Alema – ha mai affrontato il problema. Chi invece ha cavalcato il tema con successo è Silvio Berlusconi: su un piano opposto, certo, proponendo le soluzioni cui facevo riferimento prima – i condoni edilizi, il piano casa eccetera – e agendo sui peggiori istinti degli italiani. Ma a determinare il distacco della politica dall’urbanistica ha giocato anche un altro fattore.»
Quale?
«La sorte toccata a due personaggi importanti della politica italiana che hanno cercato di misurarsi con i problemi della condizione urbana. Il primo fu Fiorentino Sullo, spazzato via dal suo stesso partito, la Dc, per avere proposto una riforma urbanistica molto evoluta ed efficace in materia di controllo della rendita immobiliare, che avrebbe potuto portare l’Italia al livello delle grandi socialdemocrazie europee. L’altro, a una scala inferiore, fu Achille Occhetto. Che esordì clamorosamente in materia imponendo alla giunta rossa di Firenze di bloccare quel clamoroso esempio di urbanistica contrattata che era l’operazione Fiat-Fondiaria.
«Era il giugno del 1989, cinque mesi prima della svolta della Bolognina. La telefonata dell’allora segretario del Pci fece saltare il grande insediamento a Novoli e a Castello, dove erano previsti un centro congressuale e un centro espositivo».
Credo che nessuno abbia gli elementi in mano per affermare che questa vicenda portò alla fine politica di Occhetto. Ma se si indagasse a fondo, forse si potrebbe scoprire che, sotto sotto, un legame c’è. Inutile dire che a Firenze, uscito di scena Occhetto, il progetto è andato avanti, come ha evidenziato il recente scandalo sulle lottizzazioni di Castello. Probabilmente questi esempi inducono molti politici italiani a ritenere che l’urbanistica sia materia alquanto pericolosa, da cui è meglio girare alla larga».
Scendiamo nello specifico della disciplina. Lei crede che nella crisi abbia pesato la mancata riforma generale?
«Certo. Io ho dedicato la vita ai tentativi di riforma. Ma il tema ormai mi sembra fuori scala, essendo stato sancito il superamento delle regole urbanistiche. La situazione odierna è molto più grave dell’immediato dopoguerra: allora nessuno pensava che le norme potessero essere bypassate. Torniamo un attimo al piano casa, che è un’iniziativa delle Regioni. La legge quadro nazionale, infatti, è stata più volte annunciata ma mai varata, anche perché incostituzionale. Comunque, il governo ha enunciato principi ai quali volontariamente tutte le Regioni, comprese quelle di centrosinistra, si sono adeguate. E questo è gravissimo. Significativo il caso della Toscana, la prima ad approvare una normativa in materia. L’ha fatto in modo corretto, per carità: le agevolazioni sono erogate a condizione che gli interventi proposti siano rispettosi della legislazione urbanistica. Ma avrebbe avuto i titoli per opporsi alla manovra. Invece si è allineata alla direzione generale derogatoria».
Avrebbe anche potuto non varare alcuna legge, com’è avvenuto in Trentino Alto Adige.
«Infatti. Questo è un segno di complicità oggettiva, come si diceva una volta: destra e sinistra si incontrano sempre su questo terreno».
«Lei afferma che le regole urbanistiche non contano. Ma l’Italia è coperta da piani di ogni genere. Come si spiega questo aspetto?
Viviamo in una situazione di apparente schizofrenia: la pianificazione si continua a fare, così come proseguono le operazioni di segno opposto sul nostro territorio. Ma va anche detto che non tutta l’Italia è travolta dal modello milanese e romano. Esistono realtà in cui l’urbanistica corretta continua a essere dominante».
Cosa pensa della proposta di riforma urbanistica promossa dall’Inu nel 1995, con il nuovo piano regolatore diviso in una parte strutturale e una attuativa, poi ripreso da molte leggi urbanistiche regionali?
«Il bilancio dell’esperienza non è positivo. Faccio riferimento soprattutto alla situazione toscana, che conosco meglio. In primo luogo, la speditezza che avrebbe dovuto garantire un modello costituito da piano strutturale a lungo termine, da attuare progressivamente attraverso strumenti operativi più agili, spesso coincidenti con il mandato del sindaco, non è mai stata raggiunta. In Toscana l’attuazione del nuovo piano richiede tempi molto più lunghi rispetto ai vecchi prg. E poi non è vero che a un piano strutturale corrispondano uno o più strumenti operativi. Di solito viene varato un documento strutturale, poi uno operativo, poi la necessità di varianti induce a realizzare un altro piano strutturale e un altro operativo, e così via. Qualcosa non funziona, evidentemente. Secondo me il problema di fondo è la disarticolazione dell’urbanistica. Alla fine, l’unico piano che conta davvero è quello comunale. Non si è mai riusciti a instaurare una vera pianificazione di area vasta che, anche dove vigente, è priva di efficacia, non affrontando questioni cruciali come il dimensionamento e la configurazione delle espansioni. Tutto è ricondotto alla scala urbana. La Toscana, per rimanere al mio esempio, è ormai formata da un’unica enorme conurbazione che unisce fisicamente, senza soluzione di continuità, tutti i capoluoghi di provincia: circa cento Comuni per due milioni di abitanti. Le pare possibile che tutto questo possa essere governato da cento piani strutturali e almeno altrettanti piani operativi? Se le scelte strutturali spettassero alle Province e la loro attuazione ai Comuni, già compiremmo un passo avanti, evitando duplicazioni. E un gran consumo di suolo».
Come se ne esce?
«Non possiamo aspettare chissà quale evoluzione culturale, economica, politica. C’è bisogno di affermare alcune idee molto semplici, ma altrettanto forti. La prima, che si dovrebbe realizzare a furor di popolo, è lo stop al consumo di suolo. Salviamo il salvabile. Tracciamo una linea rossa intorno all’edificato così come si è delineato negli ultimi anni e diciamo: queste sono le colonne d’Ercole, al di là non si può andare. Altrove in Europa è già così: è sempre molto chiara la linea rossa. Finisce la città, comincia la campagna. E si resta sbalorditi dalla nettezza del mutamento. Questo stacco, in Italia, non esiste più: ecco perché riaffermare la distinzione fra città e campagna mi pare sia questione importante e anche efficace, utile a migliorare la nostra qualità della vita. Altro punto fondamentale è la difesa dalla bellezza del nostro paesaggio, che deve diventare un valore condiviso. Anche la sicurezza fisica è da tenere in considerazione: la lotta al dissesto idrogeologico e al rischio sismico va combattuta. È un tema che riguarda anche la spesa pubblica, naturalmente: è stato dimostrato che una politica oculata di prevenzione costa meno del mero risarcimento dei danni. Inoltre è ad alta intensità di lavoro e a bassa densità di capitale: si pensi solo al cuci-e-scuci delle vecchie case in pietra per consentire, ad esempio, gli interventi di sicurezza antisismica».
In realtà, oggi il termine sicurezza viene utilizzato diversamente. E i quartieri cintati, serrati entro mura e sorvegliati dalla vigilanza privata, cominciano a comparire anche nel nostro territorio. Vede anche lei questo rischio nel futuro delle città italiane?
«La sicurezza privatistica ghettizzata nelle gated community mi aveva colpito già molti anni fa, durante un viaggio di studio negli Stati uniti. Mi ero convinto fosse un modello inconcepibile per la cultura europea. Purtroppo, invece, ha attecchito anche qui. Persino a Napoli. Alludo al Centro direzionale, la madre di tutte le speculazioni edilizie che, essendo sorvegliato dalla vigilanza privata, è diventato un luogo frequentato anche dai ceti popolari dei quartieri vicini. Evidentemente risponde a un’esigenza di sicurezza, oggi molto sentita. Napoli, certo, è una città un po’ estrema sotto questo aspetto, forse non fa testo. Ma a me pare che il problema sia più percepito che reale. Oggi le nostre città sono molto più sicure rispetto a trent’anni fa».
Secondo lei si dà troppo credito all’urbanistica che, in fondo, non è mai riuscita a guidare le trasformazioni del nostro territorio?
«Non sono d’accordo. L’urbanistica che si sta praticando a Napoli, per esempio, è esattamente quella prevista dal prg e che riscuote un consenso vasto, a cominciare dai costruttori. Alcune scelte di fondo, per esempio il blocco dell’edificazione nelle zone non urbanizzate, sono state rispettate. E posso citare tanti altri esempi positivi in tutta Italia.»
Forse allora c’è un problema di attuazione dell’urbanistica. Lei parlava del prg di Napoli, varato quando era assessore comunale all’Urbanistica. Ma il recupero dell’area di Bagnoli, prevista da quel disegno, non è mai partito.
«Vero, ma almeno non si è realizzato nulla di diverso o di sbagliato. Semplicemente, non si è fatto nulla: solo la bonifica si trascina da lustri. Probabilmente è fondato e legittimo sospettare che gli appetiti su quell’area siano altri. Ma per ora possiamo registrare solo un clamoroso ritardo.»
Secondo l’assessore all’Urbanistica di Roma Marco Corsini, l’amministrazione pubblica in Italia ha sempre inseguito gli interessi privati, ricevendone una risposta funzionale alla propria sopravvivenza. Che ne pensa? E quanto pesa la possibilità di destinare alla spesa corrente comunale gli oneri di urbanizzazione, vero grimaldello per la messa a reddito del territorio?
«Pesa moltissimo, su quest’ultimo punto siamo tutti d’accordo: è stata una sciagura. In urbanistica però non hanno sempre prevalso gli interessi privati. Sicuramente da vent’anni sono prevalenti, ma in passato sono state scritte pagine splendide di contrasto alla rendita fondiaria. Si pensi all’Appia antica, 2.500 ettari lottizzati di proprietà del Vaticano e del generone romano sottratti alla speculazione edilizia da una decisione politica. Ecco, sarebbe importante ripercorrere la storia recente delle nostre città, anche negli atenei. Nessuno oggi ricorda quella vicenda, che maturò in anni difficili, durante il sacco edilizio del paese. Eppure fu una battaglia vinta. Così come vinsero a Firenze Edoardo Detti e a Bologna Giuseppe Campos Venuti, gli assessori all’Urbanistica che bloccarono l’edificazione sulle colline. Lotte costate lacrime e sangue, ma ne valeva la pena. Sa perché quelle aree furono salvate e il Vomero, Posilippo o Monte Mario no? Perché furono oggetto di politiche diverse. Che ancora oggi, in fondo, sono possibili.»