Suona strano parlare di sovranità limitata dei Comuni, almeno nella nostra regione. In Lombardia il refrain della sussidiarietà è stato instillato così massicciamente nella testa di tutti, attraverso anni ed anni di propaganda, che una delle banalità più diffuse è proprio quella che vuole i Comuni principali artefici dei propri destini.
Veniamo da un decennio e più di affermazioni in tal senso, dal classico "padroni in casa nostra", giocato in tutte le possibili salse ("casa" è una parola che si presta a molti usi), al riconoscimento costituzionale del Comune quale istituzione territoriale fondamentale (cosa che subito dopo l'approvazione della legge costituzionale n. 3/2001, diede il "la" ad iniziative strampalate da parte di amministrazioni comunali che s'inventarono degli Statuti per i quali poco mancava che da quel momento in poi, secondo loro, si sarebbero occupati pure di politica estera. Iniziative, ovviamente e giustamente, massacrate dai Tribunali amministrativi).
L'urbanistica, in Lombardia, è stata ed è, un ulteriore banco di prova della nouvelle vague politico istituzionale. Con la legge regionale per il governo del territorio, la n. 12 del 2005, di fatto, i Comuni sono diventati gli unici artefici delle loro scelte.
E' la sussidiarietà bellezza! Forse.
In realtà, il principio di sussidiarietà, di per sé sensato, dovrebbe accompagnarsi a quello di adeguatezza: scegli pure in autonomia, ma sappi che quelle scelte che, per loro natura, si riverberano su altri (per importanza, impatto o quant'altro), le devi condividere con altri soggetti, ai quali spetta, al limite, decidere in tua vece. La teoria però, per quanto scritta nella legge, è stata da subito superata dalla pratica, nel senso che l'adeguatezza, semplicemente, non è scomparsa dalla scena, non c'è proprio mai entrata in scena.
Massima autonomia possibile ai Comuni, poche e sempre meno incisive possibilità di intervento alle Province, totale disinteresse da parte della Regione (brava solo a scrivere aulici indirizzi e orientamenti dei quali è lesta a dimenticarsi subito dopo averli scritti), e il gioco è fatto.
Il messaggio passato è, pressappoco: "cari Comuni, voi fate quello che vi pare, io (Regione) non vi scoccio, in cambio voi non scocciate me su quelle poche cose che m'interessano (EXPO, aeroporti, fondazioni, fiere)". Messaggio raccolto prontamente.
Una negoziazione anche questa, senza dubbio. In altre parti d'Italia si chiama in altri modi, nessuno con significato positivo.
Il diavolo però, come noto, dimentica di fare i coperchi alle pentole, di questi tempi anche perché, oltre alla capacità, gli mancano i quattrini. Così, il "bel" risultato della deficitaria politica urbanistica regionale è che la maggior parte dei Comuni si sta allegramente fottendo il territorio (che non appartiene alle amministrazioni in carica di volta in volta, sarebbe bene ricordarlo ogni tanto), spacciando speculazioni di basso cabotaggio per "riqualificazioni" o per "valorizzazioni", o, meglio ancora, per "sviluppo" parolina magica mutuata dall'inglese "development" (che nel mondo anglosassone viene utilizzata, a proposito di real estate, con un significato ben preciso: nuove realizzazioni edilizie, ma che da noi è stata tradotta in, un più suadente, sviluppo in senso lato).
Il tutto ha, quasi sempre, una motivazione ben precisa, far quadrare i bilanci comunali massacrati da trasferimenti sempre più esigui, da costi di gestione sempre più alti, da sprechi clientelari. Qualche volta le motivazioni sono meno nobili, e coincidono con interessi personali, un tempo soddisfatti attraverso congrue mazzette, oggi tramite più consone ed eleganti forme di malversazione, dalle finte consulenze agli incarichi farlocchi ad amici e/o prestanome compiacenti.
Ecco allora che la sbandierata "sovranità" dei Comuni è, alla prova dei fatti, tenuta sotto scopa dalle esigenze di bilancio: sei autonomo e sovrano, ovvero, libero di venderti (svenderti) l'argenteria.
Poi c'è un'altra forma di annullamento della sovranità formale. Riguarda i piccoli e piccolissimi comuni con margini di attrattività turistica. Se abbracciano la politica sbagliata si consegnano a mani legate ai turisti, diventando incapaci di scegliere il proprio destino, di fatto delegando (inconsapevolmente) le scelte a chi utilizza il loro territorio ed i loro beni, senza dare null'altro in cambio al di fuori di un obolo sotto forma di ICI.
Territori usa e getta, colonie, niente più. Il turista vuole (fa capire di volere) e il Comune esegue. Fino a quando il giocattolo non piace più, il turista-bambino capriccioso picchia i piedini, se ne va, minaccia di non tornare mai più, e allora il Comune-schiavo (altro che sovrano!) si arrabatta a rinnovare il giocattolo, a farlo più grande, a aggiungergli un gadget, così il ciclo può ricominciare, fino alla noia successiva.
I cicli entusiasmo-noia sono piuttosto lunghi, si misurano in termini di lustri, e spesso subiscono condizionamenti esterni, le località sciistiche alpine lo hanno sperimentato più volte, basta una serie di vittorie o di sconfitte della Nazionale di sci a far "tirare" di più o di meno la passione per quello sport, poi ci si mette la concorrenza di altre forme di svago turistico, magari da paesi esteri, poi le crisi economiche, le mode, fattori insomma "esogeni" e non governabili a livello locale.
Piazzatorre è un perfetto paradigma di tutto ciò, chi non lo ammette mente più a sé stesso che agli altri. L'operazione "ex Colonie" è il gadget da "regalare" ai turisti-bambini capricciosi perché non se ne vadano. Un gadget costoso, molto costoso, per produrre il quale ci si è rivolti a chi non ha interessi particolari affinché il giocattolo duri più del minimo necessario (il tempo di vendere il gadget, appunto). Ora si stappano spumante e champagne per festeggiare l'unificazione dei comprensori sciistici. Ma tutte le sbornie prima o poi passano, e quando la sobrietà sarà tornata, ci si troverà un conto da pagare ed un giocattolo usato per l'ennesima volta, forse, per l'ultima volta.
Benvenuti in Alta Valle Brembana, frazione di Milano e del suo hinterland.