Risolto l’indovinello di Mara? Non era difficile, vero?
Per quanto possa sembrare incredibile è la Lombardia ad essere così disastrata.
Da un lato ha pesato la volontà politica di imporre un modello di governo territoriale basato sulla concertazione tra enti e sulla negoziazione tra pubblico e privato, dall’altro lato la scarsa avvedutezza nel selezionare la dirigenza deputata a tradurre in amministrazione attiva gli indirizzi politici.
Le radici del disastro sono lontane, risalgono a tempi ancora più antichi del regno formigoniano, parliamo di un periodo in cui era ancora vivo e vegeto il pentapartito ed il consociativismo permeava le scelte, un periodo in cui le leggi regionali si scrivevano a Milano, pensando prima alla città di Milano, poi al resto della regione.
Oggi, rispetto ad allora, è mutato radicalmente il quadro politico, non le prassi e meno ancora le finalità (raramente nobili) dell’azione politica.
Rispetto all’urbanistica ed al governo delle trasformazioni territoriali si è puntato sempre più ad abbandonare l’impianto della legislazione nazionale derivante dalla legge n. 1150 del 1942 (norma che, va detto chiaramente, nulla aveva, né ha, di fascista), a favore di un costrutto completamente diverso, nel quale non c’è spazio per la pianificazione territoriale, se non a livello di indirizzi o per poche e circoscritte politiche limitate ad aree specifiche, e nel quale la pianificazione urbanistica generale vede la propria azione depotenziata a favore della programmazione per singoli episodi scoordinati tra loro.
I maldestri tentativi dei governi di sinistra per traghettare l’Italia verso un modello di amministrazione dello Stato più vicino al federalismo, hanno fatto il resto: dare alla periferia il potere di decidere del proprio territorio, riducendo al contempo i trasferimenti di quota parte delle entrate fiscali ha comportato per i Comuni la necessità di puntellare i bilanci attraverso politiche urbanistiche sempre più avventuristiche.
Le leggi finanziarie dei governi Berlusconi hanno fatto il resto del lavoro.
Un quadro già di per sé desolante, come quello descritto, ha trovato in Lombardia elementi congeniali al suo peggioramento ulteriore. Con Formigoni (e CL) le politiche territoriali sono state improntate alla massima liberalizzazione possibile, non però in vantaggio dei cittadini ma dei più forti e strutturati tra immobiliaristi e costruttori, di ogni colore. Ligresti, Cabassi, Percassi, Pirelli, Hines, Zunino, Coop varie, Compagnia delle Opere, e chi ne conosce più ne citi, sono tutti soggetti che hanno ispirato in prima persona le decisioni della Regione riguardo territorio, infrastrutture, casa.
Terreno di prova era quasi sempre Milano, con iniziative scaturite direttamente dal Comune, ai limiti della legalità (e qualche volta anche oltre) poi, esaurita la fase pionieristica, una legge regionale giungeva provvidamente a sancire la “bontà” del prodotto, che poteva così essere “venduto” nell’intera regione.
I PII non sono altro che i “nipotini” dei PIO – Piani di Inquadramento Operativo, con cui negli anni ’80 Milano fece e disfece l’urbanistica cittadina secondo quello che fu battezzato “rito ambrosiano”.
È evidente che il “sistema” non può reggersi solo sulla politica, occorre che a questa si affianchi una burocrazia ben allineata ed asservita, cinica al punto da far strame della Costituzione e dei doveri dei pubblici impiegati, mirando al proprio tornaconto personale in termini di carriere e di prebende.
Nel corso degli anni la Direzione regionale Territorio e Urbanistica ha visto l’allontanamento dei suoi migliori dirigenti, o comunque di quelli che all’occorrenza sapevano tenere la schiena diritta, trasferiti ad altre Direzioni o relegati in ruoli di secondo piano. Per sopravvivere si doveva, e si deve, essere fedeli alla linea ciellina, o almeno non ostili ai suoi desiderata: attaccare l’asino dove vuole il padrone, in fretta e senza discutere, tanto degli effetti collaterali non importa nulla a nessuno (di quelli che contano). Se oggi la Lombardia è quella che è, ricca certo, dinamica sicuro, ma orrendamente invasa dalla melassa della cosiddetta “città infinita”, quella che va da Varese a Brescia, per intenderci, e che ogni giorno fa marcire qualche milione di persone tra code, traffico, inquinamento, costi energetici folli, territorio che scompare e capannoni che appaiono (magari anche solo per rimanere vuoti), lo si deve anche a quei signori che la schiena non la sanno, o non la vogliono, tenere diritta.
E ora veniamo alle note più dolenti, politicamente parlando. Al governo della Regione c’è, da nove anni, una coalizione, ma tutto ciò che muove denaro, urbanistica inclusa, è “affare” di Forza Italia (scommettiamo che il neonato PdL, qui conterà come il due di briscola? È FI a comandare, punto). La Lega Nord lo sa fin troppo bene, e si rode. Con le ultime elezioni (2005) arriva secco l’ultimatum: territorio e sanità alla Lega o salta la baracca. Accordo raggiunto, Boni al Territorio, Cè alla Sanità.
Cè dura poco, è uno di quelli che la schiena la tengono dritta. Boni, uomo più da proclami che da azioni concrete ed efficaci, commette un errore, che però gli garantisce la sopravvivenza: mantiene la struttura ereditata (tranne il Direttore Generale, confinato alle Infrastrutture). L’unico dirigente che si porta in dote è una figura di terzo piano, inidonea ad incidere sulle decisioni importanti, in particolare su quelle che riguardano la pianificazione territoriale e la programmazione negoziata.
La frittatona è fatta e servita, la neonata legge per il governo del territorio (l.r. 12/2005), invisa alla gran parte dei Comuni, è oggetto di continui rimaneggiamenti dettati dalla volontà di correre a soddisfare le esigenze manifestate dai gruppi di pressione più “qualificati”, ogni occasione è buona per servire il “signore” di turno (che si chiami Berlusconi o Ligresti o Tronchetti Provera, poco importa) modificando la legge in chiave generale, ma con ben in mente un “problema” particolare. Ovviamente, essendo così impegnati a semplificare la vita dei loro veri datori di lavoro, gli impavidi dirigenti in quota FI non hanno tempo per gestire come si deve le politiche territoriali, che infatti vengono per lo più abbandonate a sé stesse e alla volontà di altri soggetti (il Piano d’Area Malpensa è un perfetto esempio di questa “strategia”).
Nella palude limacciosa che è diventata la Direzione Territorio nascono così le più incredibili, talvolta vergognose, porcate urbanistiche che la storia italiana ricorderà (se ne avrà la memoria per farlo), dai PII che si trasformano in “strumenti della programmazione negoziata” senza che nessuna legge regionale l’abbia mai previsto (a che serve, se si può agevolmente supplire con un parere anonimo pubblicato sul sito della Regione?), alla disapplicazione indifferenziata di norme statali, senza minimamente verificare la costituzionalità della norma, al caos nelle deleghe autorizzative, con Provincie e Comuni che litigano tra loro perché non sanno con sicurezza a chi tocca emettere un certo provvedimento, al depotenziamento dei piani territoriali provinciali, il cui unico elemento di forza viene annacquato non appena se ne comprende la portata davvero innovativa (e chissenefrega se dalla Direzione Agricoltura giungono bestemmie, che volete che conti quel post missino di Ferrazzi, che manco sa bene perché fa l’assessore lì), a disposizioni per gli studi geologici, scritte nelle deliberazioni della giunta e smentite a voce dai funzionari(!), ai vincoli di fattibilità geologici “compensabili” (una sorta di “chi paga costruisce anche sulle frane”).
L’ultima ciliegina sulla torta è l’emendamento Boni, quello presentato in Consiglio regionale durante la discussione della legge n. 5/2009, pensato e scritto per bloccare il diluvio di PII in quei Comuni riottosi ad abbandonare i Piani Regolatori in favore del PGT.
Passato l’emendamento e la legge, tempo cinque giorni, e qualche tiratina di giacca fa comparire sul solito ineffabile sito web della Regione un comunicato (anonimo) che smonta la portata dell’emendamento. Boni lo sa? E se lo sa ha capito di cosa si sta parlando? Boh!
Chissà se chi ha pensato il comunicato e ha dato ordine di scriverlo, per poi spiegarlo a suo modo all’assessore, ha fatto tutto questo mentre si dedicava al suo lavoro vero: quello di ruffiano e millantatore, gestore di un potere che va oltre la propria effettività, e che gli garantisce credito (e denari) e amicizie interessate attraverso le quali creare, in un circolo perverso, altro potere e altri intrecci d’affari.
Ci crediate o no, poco importa, questa è la situazione nella nostra regione. Un casino, all’interno del quale ogni amministratore pubblico si ritrova non a potere ma, addirittura, a dovere fare ciò che gli pare, perché tanto “qualcuno” ha costruito una macchina capace di sfornare soluzioni in grado di “aggiustare” qualsiasi errore, qualsiasi omissione, qualsiasi furbata. L’unica cosa che quella macchina non è in grado di produrre, è il buon senso.
Per quanto possa sembrare incredibile è la Lombardia ad essere così disastrata.
Da un lato ha pesato la volontà politica di imporre un modello di governo territoriale basato sulla concertazione tra enti e sulla negoziazione tra pubblico e privato, dall’altro lato la scarsa avvedutezza nel selezionare la dirigenza deputata a tradurre in amministrazione attiva gli indirizzi politici.
Le radici del disastro sono lontane, risalgono a tempi ancora più antichi del regno formigoniano, parliamo di un periodo in cui era ancora vivo e vegeto il pentapartito ed il consociativismo permeava le scelte, un periodo in cui le leggi regionali si scrivevano a Milano, pensando prima alla città di Milano, poi al resto della regione.
Oggi, rispetto ad allora, è mutato radicalmente il quadro politico, non le prassi e meno ancora le finalità (raramente nobili) dell’azione politica.
Rispetto all’urbanistica ed al governo delle trasformazioni territoriali si è puntato sempre più ad abbandonare l’impianto della legislazione nazionale derivante dalla legge n. 1150 del 1942 (norma che, va detto chiaramente, nulla aveva, né ha, di fascista), a favore di un costrutto completamente diverso, nel quale non c’è spazio per la pianificazione territoriale, se non a livello di indirizzi o per poche e circoscritte politiche limitate ad aree specifiche, e nel quale la pianificazione urbanistica generale vede la propria azione depotenziata a favore della programmazione per singoli episodi scoordinati tra loro.
I maldestri tentativi dei governi di sinistra per traghettare l’Italia verso un modello di amministrazione dello Stato più vicino al federalismo, hanno fatto il resto: dare alla periferia il potere di decidere del proprio territorio, riducendo al contempo i trasferimenti di quota parte delle entrate fiscali ha comportato per i Comuni la necessità di puntellare i bilanci attraverso politiche urbanistiche sempre più avventuristiche.
Le leggi finanziarie dei governi Berlusconi hanno fatto il resto del lavoro.
Un quadro già di per sé desolante, come quello descritto, ha trovato in Lombardia elementi congeniali al suo peggioramento ulteriore. Con Formigoni (e CL) le politiche territoriali sono state improntate alla massima liberalizzazione possibile, non però in vantaggio dei cittadini ma dei più forti e strutturati tra immobiliaristi e costruttori, di ogni colore. Ligresti, Cabassi, Percassi, Pirelli, Hines, Zunino, Coop varie, Compagnia delle Opere, e chi ne conosce più ne citi, sono tutti soggetti che hanno ispirato in prima persona le decisioni della Regione riguardo territorio, infrastrutture, casa.
Terreno di prova era quasi sempre Milano, con iniziative scaturite direttamente dal Comune, ai limiti della legalità (e qualche volta anche oltre) poi, esaurita la fase pionieristica, una legge regionale giungeva provvidamente a sancire la “bontà” del prodotto, che poteva così essere “venduto” nell’intera regione.
I PII non sono altro che i “nipotini” dei PIO – Piani di Inquadramento Operativo, con cui negli anni ’80 Milano fece e disfece l’urbanistica cittadina secondo quello che fu battezzato “rito ambrosiano”.
È evidente che il “sistema” non può reggersi solo sulla politica, occorre che a questa si affianchi una burocrazia ben allineata ed asservita, cinica al punto da far strame della Costituzione e dei doveri dei pubblici impiegati, mirando al proprio tornaconto personale in termini di carriere e di prebende.
Nel corso degli anni la Direzione regionale Territorio e Urbanistica ha visto l’allontanamento dei suoi migliori dirigenti, o comunque di quelli che all’occorrenza sapevano tenere la schiena diritta, trasferiti ad altre Direzioni o relegati in ruoli di secondo piano. Per sopravvivere si doveva, e si deve, essere fedeli alla linea ciellina, o almeno non ostili ai suoi desiderata: attaccare l’asino dove vuole il padrone, in fretta e senza discutere, tanto degli effetti collaterali non importa nulla a nessuno (di quelli che contano). Se oggi la Lombardia è quella che è, ricca certo, dinamica sicuro, ma orrendamente invasa dalla melassa della cosiddetta “città infinita”, quella che va da Varese a Brescia, per intenderci, e che ogni giorno fa marcire qualche milione di persone tra code, traffico, inquinamento, costi energetici folli, territorio che scompare e capannoni che appaiono (magari anche solo per rimanere vuoti), lo si deve anche a quei signori che la schiena non la sanno, o non la vogliono, tenere diritta.
E ora veniamo alle note più dolenti, politicamente parlando. Al governo della Regione c’è, da nove anni, una coalizione, ma tutto ciò che muove denaro, urbanistica inclusa, è “affare” di Forza Italia (scommettiamo che il neonato PdL, qui conterà come il due di briscola? È FI a comandare, punto). La Lega Nord lo sa fin troppo bene, e si rode. Con le ultime elezioni (2005) arriva secco l’ultimatum: territorio e sanità alla Lega o salta la baracca. Accordo raggiunto, Boni al Territorio, Cè alla Sanità.
Cè dura poco, è uno di quelli che la schiena la tengono dritta. Boni, uomo più da proclami che da azioni concrete ed efficaci, commette un errore, che però gli garantisce la sopravvivenza: mantiene la struttura ereditata (tranne il Direttore Generale, confinato alle Infrastrutture). L’unico dirigente che si porta in dote è una figura di terzo piano, inidonea ad incidere sulle decisioni importanti, in particolare su quelle che riguardano la pianificazione territoriale e la programmazione negoziata.
La frittatona è fatta e servita, la neonata legge per il governo del territorio (l.r. 12/2005), invisa alla gran parte dei Comuni, è oggetto di continui rimaneggiamenti dettati dalla volontà di correre a soddisfare le esigenze manifestate dai gruppi di pressione più “qualificati”, ogni occasione è buona per servire il “signore” di turno (che si chiami Berlusconi o Ligresti o Tronchetti Provera, poco importa) modificando la legge in chiave generale, ma con ben in mente un “problema” particolare. Ovviamente, essendo così impegnati a semplificare la vita dei loro veri datori di lavoro, gli impavidi dirigenti in quota FI non hanno tempo per gestire come si deve le politiche territoriali, che infatti vengono per lo più abbandonate a sé stesse e alla volontà di altri soggetti (il Piano d’Area Malpensa è un perfetto esempio di questa “strategia”).
Nella palude limacciosa che è diventata la Direzione Territorio nascono così le più incredibili, talvolta vergognose, porcate urbanistiche che la storia italiana ricorderà (se ne avrà la memoria per farlo), dai PII che si trasformano in “strumenti della programmazione negoziata” senza che nessuna legge regionale l’abbia mai previsto (a che serve, se si può agevolmente supplire con un parere anonimo pubblicato sul sito della Regione?), alla disapplicazione indifferenziata di norme statali, senza minimamente verificare la costituzionalità della norma, al caos nelle deleghe autorizzative, con Provincie e Comuni che litigano tra loro perché non sanno con sicurezza a chi tocca emettere un certo provvedimento, al depotenziamento dei piani territoriali provinciali, il cui unico elemento di forza viene annacquato non appena se ne comprende la portata davvero innovativa (e chissenefrega se dalla Direzione Agricoltura giungono bestemmie, che volete che conti quel post missino di Ferrazzi, che manco sa bene perché fa l’assessore lì), a disposizioni per gli studi geologici, scritte nelle deliberazioni della giunta e smentite a voce dai funzionari(!), ai vincoli di fattibilità geologici “compensabili” (una sorta di “chi paga costruisce anche sulle frane”).
L’ultima ciliegina sulla torta è l’emendamento Boni, quello presentato in Consiglio regionale durante la discussione della legge n. 5/2009, pensato e scritto per bloccare il diluvio di PII in quei Comuni riottosi ad abbandonare i Piani Regolatori in favore del PGT.
Passato l’emendamento e la legge, tempo cinque giorni, e qualche tiratina di giacca fa comparire sul solito ineffabile sito web della Regione un comunicato (anonimo) che smonta la portata dell’emendamento. Boni lo sa? E se lo sa ha capito di cosa si sta parlando? Boh!
Chissà se chi ha pensato il comunicato e ha dato ordine di scriverlo, per poi spiegarlo a suo modo all’assessore, ha fatto tutto questo mentre si dedicava al suo lavoro vero: quello di ruffiano e millantatore, gestore di un potere che va oltre la propria effettività, e che gli garantisce credito (e denari) e amicizie interessate attraverso le quali creare, in un circolo perverso, altro potere e altri intrecci d’affari.
Ci crediate o no, poco importa, questa è la situazione nella nostra regione. Un casino, all’interno del quale ogni amministratore pubblico si ritrova non a potere ma, addirittura, a dovere fare ciò che gli pare, perché tanto “qualcuno” ha costruito una macchina capace di sfornare soluzioni in grado di “aggiustare” qualsiasi errore, qualsiasi omissione, qualsiasi furbata. L’unica cosa che quella macchina non è in grado di produrre, è il buon senso.