mercoledì 27 agosto 2008

Uno sguardo ai vicini 1

Che la montagna non goda di buonissima salute lo si sa da parecchio, che il turismo sulle Alpi soffra una crisi economica e d'identità pure. Il problema è diffuso, la consapevolezza che le cause non vanno cercate in complotti e congiure orditi da chissà chi e chissà dove, deve ancora farsi strada.
Qualcuno, da anni, va spiegando cosa non funziona, o non funziona più come un tempo, e si sforza anche di proporre soluzioni. Inascoltato.
Vi proponiamo un vecchio articolo del quotidiano "L'Adige", di Trento, altri ne seguiranno.
Il Trentino è un esempio, se possibile ancora più deprimente della Lombardia, di come sforzandosi adeguatamente si riesca ad ammazzare anche la più coriacea delle galline dalle uova d'oro. Buona lettura.

Da "L'Adige" di Trento del 1° marzo 2005
Intervista al prof. Giorgio Daidola, professore universitario, grande conoscitore della montagna
Di Fabrizio Torchio

Pinzolo-Campiglio, lo sviluppo del Brocon, il grande carosello di Folgaria-Lastebasse e il collegamento San Martino-passo Rolle, nel parco delle Pale. Ancora piloni, seggiovie, piste e cannoni da neve da realizzare in fretta, perché ogni anno la lancetta dei contributi pubblici segna cinque punti in meno. Il 17,5% a chi fa domanda quest'anno per il 2006, il 12,5 l'anno prossimo. Ecco l´urgenza di progettare, di staccare licenze.
«Ma è un modello che fa male alla montagna e allo sci», obietta Giorgio Daidola, docente universitario di economia e gestione delle imprese turistiche a Trento. «Investono il denaro di tutti in un settore maturo, in crisi e senza futuro». Negli USA - rammenta - in 20 anni le stazioni di sci sono scese da oltre 800 a 490. Se il fatturato delle stazioni alpine non cresce, i costi gestionali salgono alimentando la corsa al contributo pubblico. «Continuare a investire in modo massiccio nel settore dello sci di massa - avverte il professore - è oltremodo rischioso»
Ma Daidola, torinese con maso in Val dei Mocheni (abita a Frassilongo e sul prato di casa scia con una vecchia manovia) non è solo un economista. Del pianeta bianco è protagonista: maestro di sci dal '71, presidente dell'Associazione telemark international, a «talloni liberi» ha sceso per primo un ottomila in Tibet, lo Shisha Pangma. Ha disegnato serpentine sui vulcani del Sudamerica e attraversato grandi ghiacciai in Canada e Antartide. Il suo invito a non usare gli impianti in Val Jumela, risalendola con le pelli di foca, gli ha allontanato più di un amico e la distanza della politica provinciale.
Lo sci sta diventando monotono e noioso, dicono a «The White Planet» chiedendo meno piste battute e meno pressione sulla natura. «Sono d'accordo, meglio gli impianti leggeri che danno minori impatti sull'ambiente, richiedono minori investimenti, consentono più veloce recupero del capitale e sono più flessibili: gli imprenditori non sono costretti a tenerli aperti».
Lo sci è in crisi? «I dati dicono che dal 1997 al 2004 il numero di sciatori è sceso del 24%. Prudenzialmente - sono aumentati gli snowboarder - valutiamo un calo del 10% contro l´aumento del 35% dell´escursionismo estivo. Le vendite di sci sono diminuite del 30% dal '93 al '98, da 6,2 a 4,3 milioni di paia. Dagli anni ´70 ad oggi si è scesi da 390 a 110 centimetri di neve caduta: il 60%; a 1.200 metri abbiamo 124 giorni di neve al suolo con una riduzione del 20% della superficie nevosa. La neve artificiale, inizialmente usata per piccole zone, ha innescato una spirale: per pagare gli investimenti necessari a produrla bisogna aumentare i passaggi, quindi le portate orarie degli impianti. L'industria dello sci, da flessibile, è diventata rigida».
E i costi? «Mantenere 70 milioni di passaggi all'anno richiede grandi spese di promozione per attirare mercati distanti, che spesso poi pagano poco. Il costo della neve artificiale è stimato in 136 mila euro ad ettaro, compresi gli ammortamenti degli impianti e il costo d'esercizio. E il 60% delle stazioni sulle Alpi è in deficit».
È anche cambiato lo sci. «La neve artificiale è fatta di palline di ghiaccio che pesano quattro volte di più e richiedono continue lavorazioni per non diventare una superficie durissima. I francesi correttamente la chiamano neige de culture, neve di coltura, e ha fatto nascere attrezzi e tecnica diversi: lo sci corto e molto sciancrato per mordere. Pensi che all´ultimo corso di aggiornamento per maestri, Colturi si scusava con noi. Aveva nevicato e non poteva mostrarci la deformazione degli attrezzi. Lo sci industriale ha tolto libertà d'espressione e portato maggiori velocità, più incidenti e l'ossessione per la sicurezza. Servono più piste-autostrade per smaltire il traffico».
Le alternative? «Stazioni sciistiche più leggere con sciovie, manovie, slittoni. Malghe e agriturismi che sono stati ristrutturati con milioni di euro, anziché restare chiusi potrebbero funzionare anche d´inverno. C'è un nuovo oro delle Alpi là sotto: una manovia sul prato sotto la malga è meglio dei Luna Park di plastica delle stazioni di sci. Per i bambini, ad esempio, sui quali dobbiamo investire. Una settimana bianca in una malga, quella sì segnerebbe uno stacco dalla città. E basterebbero investimenti irrilevanti. Il modello alternativo, se lo si vuole, esiste e può reggere. Non dà facili arricchimenti, ma permette alla gente di restare in montagna. Sa cosa sta succedendo in Francia? La Compagnie des Alpes, che investe in impianti solo sopra i 1.800 metri e con ottica espansionistica, vede gli utili in calo. E cosa fa? Investe in pianura, nei grandi Luna Park. Lo sci viene considerato un prodotto maturo da tutti gli analisti, che parlano di riposizionamento: après ski, dalle cene al rifugio alle discese con la slitta».

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