Recentissima, questa denuncia dei danni conseguenti a politiche ed azioni assai poco lungimiranti.
Sottoscriviamo tutto. Prendete i nomi delle località, sostituiteli con quelli di altre a vostro piacere, in Lombardia (ma anche in Piemonte, per quanto ci è dato sapere, vero amici di Macugnaga?) e decidete voi se le analogie ci sono o no. Secondo noi ci sono, eccome.
Paghiamo il conto di scelte sbagliate
da "L’Adige" di Trento, del 29 luglio 2008
di Elena Baiguera Beltrami
Montagna in crisi, montagna che si svende, colpa del tempo? Del prezzo del petrolio? Della congiuntura economica? L'allarme degli operatori della val di Fassa in questi giorni ha gettato un sasso in piccionaia, ma gli addetti ai lavori della Val di Fassa, come della Val di Fiemme, della Rendena o del Garda sanno bene che non si tratta di un fenomeno contingente. Chi ha vissuto e lavorato nelle località turistiche d'eccellenza del Trentino sa bene che la politica del gioco al ribasso sui prezzi dei pernottamenti non è storia recente, oggi il fenomeno è semplicemente esploso in tutta la sua gravità, ma il problema si trascina da anni. E allora guardiamolo in faccia una volta per tutte. La situazione di sofferenza della montagna estiva ha radici lontane e implicazioni diverse che coinvolgono scelte di politica turistica fatte in passato di cui oggi si paga lo scotto. Per capire occorre fare qualche passo indietro nel tempo e considerare il comparto turistico alpino nella sua globalità, senza prescindere dalla stagione invernale. Dopo il boom economico degli anni '60 che in montagna portò una proliferazione abnorme di seconde case, a spingere al massimo l'acceleratore sul successo dello sci come sport di tendenza contribuirono per tutto il corso degli anni '70 le grandi performance della valanga azzurra in Coppa del Mondo: Gustav Thoeni, Paolo De Chiesa, Pierino Gross, erano gli eroi sportivi dei rampolli dell'alta borghesia padana. Era una febbre diffusa che invase le alpi come una malattia esantematica, inizialmente con una frequentazione elitaria, e via via estendendosi ad ogni ceto sociale, fino a divenire a metà alla fine degli anno '80 un fenomeno di massa. A segnare questo passaggio negli anni '80 ed a tenere alto l'appeal nei confronti della montagna e dello sci fu un altro grandissimo atleta, Alberto Tomba, l'astro nascente che dominerà la scena agonistica per oltre dieci anni. Tomba, con il suo accento bolognese era il bambino prodigio cresciuto a fiorentine e pali da slalom, il teorema vivente che la montagna non era più esclusivo appannaggio dei montanari, ma poteva , anzi doveva essere «posseduta» e vinta anche dai «cittadini». Fu l'apoteosi, la parabola di un mito sportivo ed il crollo dello stereotipo della montagna inviolata ed inviolabile. Orde di ragazzini, di famiglie con bambini di attempati signori e signore con velleità sportive si attrezzavano di tutto punto per fare la propria comparsa nelle località blasonate e magari scivolare tra i pali di qualche competizione di club. Era una questione di «status», l'importante era esserci, d'inverno ma anche d'estate perché la stagione invernale faceva da traino a quella estiva. E c'erano tutti, a turno da Roma in su e negli anni '90 anche da Roma in giù. I vecchi skilift e le seggiovie non erano più sufficienti a turnare l'enorme flusso dei vacanzieri che ogni anno si riversava sulle piste, dove si formavano code interminabili a tutto discapito dei guadagni delle società impiantistiche. Sulla scorta di questa invasione, che ogni anno segnava trend di crescita strabilianti, occorreva riorganizzare tutto il comparto con impianti più veloci e confortevoli ed una portata oraria 3 o 4 volte superiore. Ben presto ci si accorse anche che il fenomeno delle seconde case aveva portato uno squilibrio nel tessuto economico- sociale dei centri sciistici più rinomati. Era un'invasione ingestibile, che creava un indotto parziale ed un rapporto squilibrato tra il carico antropico dovuto al traffico automobilistico e le ricadute economiche, gli stili di vita erano cambiati ed anche il modo di concepire la vacanza. Negli anni sessanta e settanta le famiglie «bene» italiane potevano permettersi un mese di vacanza al mare e tutto il mese di agosto nella casa di montagna, negli anni novanta la tendenza si era definitivamente orientata sulla settimana. Settimana bianca, o verde, ma sempre e soltanto la settimana iniziò ad essere lo strumento con il quale misurare il termometro del turismo, in ottemperanza ai dettami dei mercati internazionali che imponevano una commercializzazione standardizzata. Così, nell'arco di dieci anni tra la metà degli anni ottanta e fino al 1996-97, in Trentino si diede la stura ad investimenti consistenti nel campo impiantistico ed a progetti di riqualificazione del comparto ricettivo. I posti letto nei residence e nelle seconde case dovevano essere riequilibrati da posti letto in hotel, era imperativo rafforzare l'imprenditoria locale, creare occupazione e lavoro per tutto l'indotto valligiano che orbitava attorno ai centri sciistici. Questo fu un momento cruciale per le scelte di politica turistica che oggi regolano il settore. Grandi comparti impiantistici dovevano coniugarsi con grandi strutture alberghiere, una quantità enorme di rifugi in quota, raggiungibili anche di notte con i gatti delle nevi, mega parcheggi, reti stradali, gallerie. Insomma un apparato imponente, sovvenzionato copiosamente dal pubblico, più grande e qualificante era l'intervento di ristrutturazione alberghiera più veniva sovvenzionato e più lo strumento urbanistico della «deroga» ai piani regolatori urbanistici solleticava gli albergatori ad ingrandire fino a due tre volte la volumetria originaria. Il comparto «tirava» ed i Comuni e gli usi civici soprattutto in alta Rendena, non volendo essere esclusi dal banchetto, mettevano mano alle malghe trasformandole in ristoranti, bar e discoteche da mettere all'asta a cifre da capogiro. Intanto qualcuno metteva in guardia contro la monocultura dello sci, che avrebbe creato ingenti danni all'ambiente e snaturato il paesaggio alpino mettendo serie ipoteche anche sulla stagione estiva, disincentivando gli amanti della montagna nell'accezione più autentica del temine. Ma ormai si era imboccata una strada senza ritorno. Ora basta guardare le nostre località turistiche alpine per rendersi conto di quanto poco di autentico e di suggestivo hanno conservato, come basta guardare uno di questi mastodonti, a 3 o 4 stelle per avere un brivido e chiedersi come faranno a quadrare il bilancio, per non parlare delle piccole strutture che non possiedono più un'offerta. Certamente oggi la situazione economica del nostro paese è drammatica e questo ha il suo peso, ma perché in Alto Adige, per citare una realtà molto vicina la Trentino, non vi sono evidenti segnali di crisi ed esiste la destagionalizzazione più alta di tutto l'arco alpino? Forse perché sono molto più i «bed&breakfast» con accanto la stalla o l'azienda agricola che i quattro stelle? Forse perché accanto ad uno sviluppo sostenibile si è mantenuta l'identità originaria dei luoghi? Forse perché si è puntato sulla qualità piuttosto che sulla quantità? Forse. Una cosa è certa, se di «autonomia» si deve parlare, il gap tra le due realtà non sfugge più nemmeno al più distratto dei viandanti. Ora le ricette non sono semplici, l'industria della vacanza è in sofferenza, come tutta l'industria italiana, ci vorrebbe un nuovo boom economico, per quanto improbabile, o una nuova valanga azzurra, o un novello Tomba e su questo forse qualcosa si potrebbe tentare e magari qualcosa si potrebbe pure investire.
Montagna in crisi, montagna che si svende, colpa del tempo? Del prezzo del petrolio? Della congiuntura economica? L'allarme degli operatori della val di Fassa in questi giorni ha gettato un sasso in piccionaia, ma gli addetti ai lavori della Val di Fassa, come della Val di Fiemme, della Rendena o del Garda sanno bene che non si tratta di un fenomeno contingente. Chi ha vissuto e lavorato nelle località turistiche d'eccellenza del Trentino sa bene che la politica del gioco al ribasso sui prezzi dei pernottamenti non è storia recente, oggi il fenomeno è semplicemente esploso in tutta la sua gravità, ma il problema si trascina da anni. E allora guardiamolo in faccia una volta per tutte. La situazione di sofferenza della montagna estiva ha radici lontane e implicazioni diverse che coinvolgono scelte di politica turistica fatte in passato di cui oggi si paga lo scotto. Per capire occorre fare qualche passo indietro nel tempo e considerare il comparto turistico alpino nella sua globalità, senza prescindere dalla stagione invernale. Dopo il boom economico degli anni '60 che in montagna portò una proliferazione abnorme di seconde case, a spingere al massimo l'acceleratore sul successo dello sci come sport di tendenza contribuirono per tutto il corso degli anni '70 le grandi performance della valanga azzurra in Coppa del Mondo: Gustav Thoeni, Paolo De Chiesa, Pierino Gross, erano gli eroi sportivi dei rampolli dell'alta borghesia padana. Era una febbre diffusa che invase le alpi come una malattia esantematica, inizialmente con una frequentazione elitaria, e via via estendendosi ad ogni ceto sociale, fino a divenire a metà alla fine degli anno '80 un fenomeno di massa. A segnare questo passaggio negli anni '80 ed a tenere alto l'appeal nei confronti della montagna e dello sci fu un altro grandissimo atleta, Alberto Tomba, l'astro nascente che dominerà la scena agonistica per oltre dieci anni. Tomba, con il suo accento bolognese era il bambino prodigio cresciuto a fiorentine e pali da slalom, il teorema vivente che la montagna non era più esclusivo appannaggio dei montanari, ma poteva , anzi doveva essere «posseduta» e vinta anche dai «cittadini». Fu l'apoteosi, la parabola di un mito sportivo ed il crollo dello stereotipo della montagna inviolata ed inviolabile. Orde di ragazzini, di famiglie con bambini di attempati signori e signore con velleità sportive si attrezzavano di tutto punto per fare la propria comparsa nelle località blasonate e magari scivolare tra i pali di qualche competizione di club. Era una questione di «status», l'importante era esserci, d'inverno ma anche d'estate perché la stagione invernale faceva da traino a quella estiva. E c'erano tutti, a turno da Roma in su e negli anni '90 anche da Roma in giù. I vecchi skilift e le seggiovie non erano più sufficienti a turnare l'enorme flusso dei vacanzieri che ogni anno si riversava sulle piste, dove si formavano code interminabili a tutto discapito dei guadagni delle società impiantistiche. Sulla scorta di questa invasione, che ogni anno segnava trend di crescita strabilianti, occorreva riorganizzare tutto il comparto con impianti più veloci e confortevoli ed una portata oraria 3 o 4 volte superiore. Ben presto ci si accorse anche che il fenomeno delle seconde case aveva portato uno squilibrio nel tessuto economico- sociale dei centri sciistici più rinomati. Era un'invasione ingestibile, che creava un indotto parziale ed un rapporto squilibrato tra il carico antropico dovuto al traffico automobilistico e le ricadute economiche, gli stili di vita erano cambiati ed anche il modo di concepire la vacanza. Negli anni sessanta e settanta le famiglie «bene» italiane potevano permettersi un mese di vacanza al mare e tutto il mese di agosto nella casa di montagna, negli anni novanta la tendenza si era definitivamente orientata sulla settimana. Settimana bianca, o verde, ma sempre e soltanto la settimana iniziò ad essere lo strumento con il quale misurare il termometro del turismo, in ottemperanza ai dettami dei mercati internazionali che imponevano una commercializzazione standardizzata. Così, nell'arco di dieci anni tra la metà degli anni ottanta e fino al 1996-97, in Trentino si diede la stura ad investimenti consistenti nel campo impiantistico ed a progetti di riqualificazione del comparto ricettivo. I posti letto nei residence e nelle seconde case dovevano essere riequilibrati da posti letto in hotel, era imperativo rafforzare l'imprenditoria locale, creare occupazione e lavoro per tutto l'indotto valligiano che orbitava attorno ai centri sciistici. Questo fu un momento cruciale per le scelte di politica turistica che oggi regolano il settore. Grandi comparti impiantistici dovevano coniugarsi con grandi strutture alberghiere, una quantità enorme di rifugi in quota, raggiungibili anche di notte con i gatti delle nevi, mega parcheggi, reti stradali, gallerie. Insomma un apparato imponente, sovvenzionato copiosamente dal pubblico, più grande e qualificante era l'intervento di ristrutturazione alberghiera più veniva sovvenzionato e più lo strumento urbanistico della «deroga» ai piani regolatori urbanistici solleticava gli albergatori ad ingrandire fino a due tre volte la volumetria originaria. Il comparto «tirava» ed i Comuni e gli usi civici soprattutto in alta Rendena, non volendo essere esclusi dal banchetto, mettevano mano alle malghe trasformandole in ristoranti, bar e discoteche da mettere all'asta a cifre da capogiro. Intanto qualcuno metteva in guardia contro la monocultura dello sci, che avrebbe creato ingenti danni all'ambiente e snaturato il paesaggio alpino mettendo serie ipoteche anche sulla stagione estiva, disincentivando gli amanti della montagna nell'accezione più autentica del temine. Ma ormai si era imboccata una strada senza ritorno. Ora basta guardare le nostre località turistiche alpine per rendersi conto di quanto poco di autentico e di suggestivo hanno conservato, come basta guardare uno di questi mastodonti, a 3 o 4 stelle per avere un brivido e chiedersi come faranno a quadrare il bilancio, per non parlare delle piccole strutture che non possiedono più un'offerta. Certamente oggi la situazione economica del nostro paese è drammatica e questo ha il suo peso, ma perché in Alto Adige, per citare una realtà molto vicina la Trentino, non vi sono evidenti segnali di crisi ed esiste la destagionalizzazione più alta di tutto l'arco alpino? Forse perché sono molto più i «bed&breakfast» con accanto la stalla o l'azienda agricola che i quattro stelle? Forse perché accanto ad uno sviluppo sostenibile si è mantenuta l'identità originaria dei luoghi? Forse perché si è puntato sulla qualità piuttosto che sulla quantità? Forse. Una cosa è certa, se di «autonomia» si deve parlare, il gap tra le due realtà non sfugge più nemmeno al più distratto dei viandanti. Ora le ricette non sono semplici, l'industria della vacanza è in sofferenza, come tutta l'industria italiana, ci vorrebbe un nuovo boom economico, per quanto improbabile, o una nuova valanga azzurra, o un novello Tomba e su questo forse qualcosa si potrebbe tentare e magari qualcosa si potrebbe pure investire.
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