Non perchè siamo follemente innamorati di quel che succede in Trentino, ma perchè abbiamo la sensazione che sia l'unico territorio montano dove le critiche a determinati modelli di sviluppo turistico non si placano, proponiamo un articolo del direttore de "L'Adige" di Trento, dott. Pierangelo Giovanetti, che ringraziamo per averne espressamente autorizzato la pubblicazione sul nostro blog.
L'articolo è recente e il tema di fondo, tanto per gradire, è sempre quello: coltivare a seconde case le montagne è come concimare un prato usando il diserbante.
Per la sola provincia di Trento si parla di tredicimila e forse più seconde case negli ultimi 15 anni, e si intendono edifici, non appartamenti, che dunque portano la cifra, ottimisticamente, ad almeno il doppio. Un impatto enorme sul territorio. E qualcuno comincia a rendersi conto che non c’è un Trentino di ricambio. Quand’è che in Lombardia ci si sveglierà dalla sbronza edificatoria?
Turismo senz'anima per forza in crisi
di PIERANGELO GIOVANETTI l’Adige 28 luglio 2008
Con oggi, ultima domenica di luglio, siamo entrati nel cuore delle vacanze estive, quell'agosto che un tempo segnava il tutto esaurito e il pienone di villeggianti, italiani e stranieri. Un tempo, però. Andando in giro per il Trentino, ora si vedono alberghi mezzi vuoti, case sfitte, scritte «Affittasi per il mese di agosto», quando ad agosto mancano quattro giorni. In val di Fassa, per riempire i lussuosi hotel ristrutturati e ampliati a suon di milioni di contributi provinciali (134 solo negli ultimi sei anni), si svendono i posti letto a 20 euro a notte. Addirittura c'è chi ha proposto la notte in albergo, pur senza colazione, ad 11 euro. Prezzi in saldo, pur di fare numero. Di riempire camere. Di pagarsi le spese di grosse strutture pensate per un turismo di massa, delle Rimini d'alta quota, progettate sui flussi dei dieci giorni ferragostani e della settimana di Capodanno. È bastato un anno con un po' di pioggia più del solito, con la crisi economica che si fa sentire nelle famiglie, e subito la grandiosa macchina del turismo trentino s'è inceppata. Ha mostrato le crepe di un modello vecchio, anni '70-'80, plasmato sul mito del monoturismo dello sci da discesa, capace da solo di trainare la montagna, che punta tutto e solo sui grandi numeri, perché da solo sa riempire alberghi e residence, case e doppie case. No, questo modello non funziona più. E la montagna in liquidazione, a 20 euro la notte, ne è la più plateale e visibile conseguenza. La crisi del turismo trentino ha radici profonde e lontane. La prima mazzata l'ha data a cominciare dagli anni Sessanta e Settanta la svendita del territorio con le seconde e le terze case, chiuse quasi tutto l'anno, sempre vuote. Non solo perché hanno cementato i boschi, i prati e i monti di questa terra, che era il motivo per cui la montagna piaceva e costituiva un'attrattiva. Ma soprattutto perché hanno sancito la fine dell'identità montagna = territorio = cultura, e sono diventate casette a schiera uguali a Campiglio come a Milano 2 o sulla riviera romagnola, che per giunta costa meno. Quella cementificazione dei nostri paesi, con le tapparelle giù undici mesi e mezzo all'anno, è stato il primo colpo mortale dell'offerta vacanziera trentina, ingenerando l'illusione che il turismo di montagna si vendesse un tot al chilo, parametrato sugli afflussi della settimana di Ferragosto. Da tale errore di prospettiva, sono scaturiti poi tutti gli altri. A cominciare dall'idea che il modello di vacanza sulle Dolomiti potesse essere lo stesso adottato a Ibiza o in riviera: massificazione, uniformazione, generalizzazione, a prescindere dall'identità culturale e territoriale di ciò che si offriva. Mentre in Alto Adige, i masi e le case dei vecchi paesi venivano aperti al turista desideroso di assaporare la montagna nella sua originarietà e verità, a fianco delle stalle con le vacche e le galline, per bere il latte appena munto e le uova fresche, assaggiando lo speck prodotto in casa e lo strudel appena sfornato, da noi si procedeva alla vendita degli alberghi ai grossi gruppi, ai circuiti internazionali, per riempirli con le offerte last minute, di chi all'ultimo sceglie cosa gli conviene di più, se Formentera o le dolomiti. Così oggi in Alto Adige abbiamo 1300 agriturismi a 1.500-2.000 metri di altitudine, masi che vivono tutto l'anno, dove si mangia il formaggio di malga e si sfalcia il fieno con il contadino, con i villeggianti dalla primavera all'autunno, e poi d'inverno. Da noi, dove gli agriturismi sono 300 scarsi, e quasi tutti nati negli ultimi anni, la parola montagna è ancora intesa come sinonimo di grosso impianto di risalita per arrivare in quota un paio d'ore e tornare poi all'hotel. Non c'è l'idea che turismo in montagna è cultura della montagna, cultura dell'ambiente, cultura dell'ospitalità, cultura del territorio. Perché è per quello che si viene in Trentino, e non si va a Disneyland. Purtroppo la crisi mortale del turismo di montagna non sono il maltempo o i costi economici, ma la perdita d'identità di ciò che la montagna è e si vuole offrire al visitatore. Una crisi che è destinata ad aggravarsi ancora, visto l'accanimento con cui l'ente pubblico - la Provincia Autonoma di Trento - e molti operatori turistici continuano ad intestardirsi nel gettare risorse sugli impianti di risalita, quasi che lo sci - in un'epoca in cui di neve ce n'è e ce ne sarà sempre di meno - possa fare da traino per tutto il testo. Quasi che quel turismo invernale monoculturale riesca a far vendere la montagna anche d'estate. E così mentre la Provincia di Trento si appresta a versare a fondo perduto altre decine e decine di milioni di euro per gli impianti di Pinzolo-Campiglio, Passo Rolle-San Martino, Folgaria Laste Basse, Tremalzo, Bondone, eccetera eccetera, la montagna d'estate si svuota, gli alberghi svendono un posto letto a 20 euro, quando non svendono lo stesso albergo.
Sono 24 gli alberghi in vendita sul mercato solo in val di Fassa. Ma anche sul Garda le cose non vanno diversamente. La legge Gilmozzi, che ha fermato le seconde case, è arrivata quando ormai le vacche erano tutte scappate dalla stalla, con trent'anni di ritardo. Arriveremo con trent'anni di ritardo anche a dire che quelle decine di milioni dati alle società impiantistiche sono stati soldi buttati perché la neve ci sarà solo sopra i 1.800 metri? E piangeremo sui turisti scappati perché la montagna che sappiamo offrire è solo strade, case, auto, rumore, illuminazione a tutto spiano che impedisce perfino di vedere di notte le stelle? E se neanche in montagna possiamo vedere le stelle, o camminare senza avere moto che ti traversano la strada, cosa si viene a fare? Chissà che l'estate 2008, con il maltempo e la crisi economica, non risulti alla fin fine benefica a farci a riflettere che un certo modello di turismo è vecchio e non è più sostenibile. E con la montagna, quella vera, non ha ormai più nulla a che fare.
p.giovanetti@ladige.it